Il vecchio zio non ha più la forza di occuparsi del vigneto, sta per vendere agli svizzeri il podere di famiglia. Che deve fare? Il nipote ormai lavora in fabbrica a Torino, ha scelto un’altra strada. Ma il destino ha in serbo una sorpresa. Da una storia vera, il racconto di Gloria Bava.
Intreccio di Vite
Era una domenica d’autunno Paola e Franco, con la loro auto, avevano abbandonato la strada trafficata tra Asti ed Alba e si erano portati di là del Tanaro, tra poco avrebbero trovato la stradina sterrata per la vecchia cascina tra i filari dove, ormai da parecchi anni, viveva tutto solo Tunin: lo zio di Franco.
Negli anni che seguirono la fine della guerra tanti dei suoi parenti ed amici stanchi di rompersi la schiena nei campi lasciarono quelle dure terre per andare a lavorare nelle fabbriche dove trovarono un salario tutti i mesi, le ferie pagate, la mutua in caso di malattia.
Tunin, no: non volle mai andarsene, testardamente continuò a lavorare le vigne, tremando per i temporali d’estate, il ‘marin’, la siccità e le mille difficoltà che sono compagne di chi lavora la terra, sempre pensando che “’la cadena è per ji can nen per ji cristian”.
Ora, però, temeva di doversi arrendere: sempre più spesso sentiva il peso della solitudine e temeva di non riuscire più a far fronte alla lunga sequenza di lavoro che dalla potatura dei vigneti prosegue per tutto l’anno fino alla vinificazione.
Per questo motivo aveva chiesto al figlio di suo fratello Giovanni, che era andato in città a lavorare ed era morto ormai da anni, di venire alla cascina per parlare dell’offerta che certi svizzeri avevano fatto per comprare casa e terra.
Franco era tecnico elettronico e lavorava come il padre nella grande fabbrica di Torino: era un ragazzo serio, lavoratore, ‘posato’ come si diceva una volta tra queste colline; sua moglie Paola lavorava in una casa editrice: entrambi erano rispettosi e gentili con lui e Tunin sapeva che poteva parlare apertamente e cercare insieme una buona soluzione per gli anni che gli restavano da vivere.
Aveva fatto i conti: la sua pensione, un po’ di soldi che aveva in banca ed il ricavato dalla vendita della cascina gli avrebbero permesso di pagare la retta per parecchi anni nella casa di riposo del paese dove sarebbe stato servito in tutto ed assistito in caso di malattia, in più avrebbe trovato la compagnia degli altri ospiti.
Tunin era sempre stato un tipo solitario, andava in paese solo per il mercato del martedì e talvolta la domenica pomeriggio passava qualche ora al circolo giocando a tresette e discutendo di tartufi.
Ora però non gli bastavano più i dialoghi con Flic, il suo rossiccio bastardino, che da tanti anni lo seguiva nelle umide serate di tardo autunno annusando ed estraendo ‘trifule’ in cambio di una carezza e di un ‘bravo Flic’.
Aveva voglia di parlare, di raccontare della vita ormai diventata passato, di sentire le idee di altre persone.
Franco e Paola arrivarono sorridenti e gentili come sempre e chiesero di restare seduti sulla panchina accostata alla casa per godersi il sole ancora caldo ed il sontuoso trionfo barocco dei vigneti ormai spogli di grappoli, ma risplendenti di rosso, di giallo e d’oro.
Tunin entrò subito in argomento ed illustrò la situazione, dicendo che lui era deciso: se loro non avevano nulla in contrario il martedì successivo sarebbe andato dal notaio a dirgli di preparare l’atto di vendita in modo da poter lasciare la casa libera per San Martino quando fra quelle colline si fanno i traslochi.
Parlò tutto d’un fiato, come per liberarsi di un peso; poi li lasciò per scendere in cantina a sorvegliare il mosto che stava ribollendo nei tini.
Una mezz’ora dopo era di ritorno con tre bicchieri in una mano e una bottiglia già stappata nell’altra, si sedette e fece scendere lentamente il vino nei bicchieri: rubino liquido e profumato che catturava e rifletteva i raggi obliqui del sole.
Dopo aver bevuto qualche sorso Tunin volse verso Franco uno sguardo interrogativo e notò che il nipote non aveva l’aria serena di sempre, gli occhi erano un po’ opachi, le sopracciglia corrugate e nella sua voce sentì tensione: sperò di non essere lui la causa di tale preoccupazione.
Franco disse che il progetto dello zio gli pareva buono e vantaggioso, che alla sua età era giusto riposarsi e, soprattutto, liberarsi delle preoccupazioni delle vigne e del vino, aggiunse che loro sarebbero stati più tranquilli a saperlo in una casa di riposo servito, curato, in compagnia piuttosto che solo in quella grande casa.
Sollevato da queste parole Tunin versò ancora un po’ di vino nei bicchieri, poi, vincendo la riservatezza, chiese al nipote come andava il lavoro, come si viveva a Torino, se erano vere le voci di crisi che si sentivano in giro.
Paola, silenziosa fino ad allora, cominciò a parlare della grande fabbrica in difficoltà, della tensione e delle frustrazioni di Franco che lavorava senza alcun riconoscimento delle proprie capacità e, più di ogni altra cosa, gli pesava l’insicurezza del posto di lavoro e l’incertezza del futuro.
Franco taceva pensieroso, alla fine anch’egli si aprì e parlò delle scarse prospettive, dell’insoddisfazione che sentiva crescere dentro di sé, dei ritmi sempre più alti e spersonalizzanti che venivano imposti, dell’arroganza e maleducazione dilagante.
Lo zio ripensò a suo fratello e a quanti avevano lasciato la campagna per andarsi a chiudere in fabbrica sperando di dare un futuro sicuro alla propria famiglia: certo non avrebbero creduto che sarebbe finita così!
Senza distogliere lo sguardo dal bicchiere da cui saliva l’aroma severo del vino Franco disse:
“Ho riflettuto su quanto abbiamo detto prima, e, penso che se gli svizzeri comprano la cascina per fare vino, perché lasciare a loro quest’opportunità?
Invece degli svizzeri veniamo noi qui, se tu m’insegni il vino lo farò io.
Anziché comprare ottanta metri quadri di cemento in periferia risistemiamo la casa e la cantina, Paola potrà lavorare da casa a mandare il lavoro via Internet alla casa editrice, così nostro figlio non dovrà essere lasciato in un asilo tutte le mattine e farà i primi passi sull’erba e non su un marciapiede d’asfalto.”
Tunin temeva di non aver capito bene, non osava parlare. Comprese quando vide lo sguardo radioso di Paola: allora era vero tutto!
Poteva restare nella sua casa, i suoi nipoti sarebbero stati con lui ed avrebbero lavorato insieme e, la prossima primavera, sotto l’albicocco al fondo del cortile ci sarebbe stata una culla….. e poi ci sarebbero state ancora vendemmie, potature, grandinate, nebbie, ‘sucine’e gelate, Flic poteva restare a dormicchiare sotto la tettoia sognando trifule profumate: la vita sarebbe continuata nella cascina tra i filari.
Il sole eclissandosi dietro la sagoma netta delle montagne inondò il cielo con una sinfonia di azzurro ed oro, in basso la foschia grigiolina nascose la città e la sua grande fabbrica malata.
Gloria Bava, Asti