Il terzo racconto della rassegna “Cantami o Diva”, promossa dal Premio Calicanto con ASTIGOV, ci riporta alla Seconda Guerra Mondiale. E’ una storia di paura, amore e coraggio. L’autore è Mario Zunino
Ratnik
Il suo nome di battaglia era Ratnik, che in croato, la sua lingua madre, vuol dire guerriero. L’anno prima era riuscito a scappare da un campo di internamento, aveva vagabondato per qualche settimana, muovendosi sempre quando faceva scuro. Era arrivato sulle Langhe per caso, e lì era diventato partigiano.
Quella fredda notte di novembre l’aveva passata in un fosso sulla collina che da Cassinasco scende verso Canelli. Era stato ferito nel rastrellamento del giorno prima, una pallottola nella coscia sinistra. Quelli dei suoi che erano riusciti a sganciarsi erano sbandati, forse qualcuno addirittura oltre Bormida. Lui aspettava di morire di freddo, coricato nel suo sangue che aveva smesso di colare dopo avergli inzuppato il pantalone.
Era verso l’alba quando sentì un fruscio come di uno che stesse strisciando pancia a terra. Poi, alle sue spalle, la voce sussurrata di Leo che lo chiamava. Era vicino, stava per arrivare da lui, quando apparve dal sentiero del bosco un soldato della Wermacht con il mitra spianato. Era poco più di un ragazzino. Il tedesco vide prima Leo carponi fra gli sterpi, lo puntò. Poi si accorse anche di Ratnik. I suoi occhi più azzurri del cielo d’autunno incrociarono lo sguardo del partigiano ferito, d’istinto aveva spostato la mira su di lui. Un attimo lungo come una notte senza sonno. Abbassò l’arma quel soldatino, sembrò salutare, poi si allontanò nel silenzio, risalendo la cresta della collina. Ratnik e Leo restavano immobili, a due passi l’uno dall’altro. Dopo poco, più in alto di loro, una raffica cimò gli alberi.
Finalmente Leo si mosse, raggiunse Ratnik, se lo caricò in spalla. Sentì che il compagno aveva la febbre, borbottava qualcosa nella sua lingua. Si capiva una sola parola, Bog, Dio.
Scendendo a mezza costa, raggiunsero la cascina dei genitori di Paola, lei era coi partigiani, staffetta. Loro dicevano in giro che stava in città da servente, e nessuno li aveva più interrogati da quella volta che era venuta una squadra della repubblica. Avevano creduto al vecchio, ma per buon peso si erano portati via il maiale, i conigli, un paio di galline.
Ratnik lo nascosero per tutto l’inverno in un cantinotto con l’ingresso – un buco non più grande della cuccia del cane – coperto con il letame. Per un po’ si era nascosta lì Paola, quando giravano voci di stupri e violenze. Poi era andata via, con i partigiani.
Un tubo camuffato da scolo della concimaia portava aria da fuori. Dentro si poteva stare in piedi e c’era un pancone per dormire. Bottiglie di vino occupavano una fila di nicchie. Da mangiare gliene portavano di notte, ma qualche volta lui usciva per lavarsi con l’acqua gelida dell’abbeveratoio, o anche soltanto a guardare le stelle.
Ai primi di febbraio, guarito ed in carne, una sera col buio riprese la via delle Langhe alte. “Grazie di tutto – gli era scappato ‘compagni!’ – che Dio vi protegga e vi benedica. Bog blagoslovi ove ljude”. E accompagnò le parole con il segno di croce ortodosso, le dita giunte, dall’alto in basso e dalla spalla destra a quella sinistra.
Oggi il cantinotto ha di nuovo il suo portoncino di legno. Quella casa è diventata un agriturismo, curatissimo dai fratelli Michici, i nipoti di Paola. Lei si chiama come la nonna, lui Stefano, come il nonno Stephano Mikšić. Detto Ratnik.
Mario Zunino, Asti