Una storia intensa, di sofferenza e speranza, nel racconto struggente di Maria Teresa Montanaro.
Ho reinventato una vita senza voce e senza corpo, attaccata a una piccola speranza, al sogno di poter muovere un dito, una mano, grattarmi ancora il naso e sono qui a chiedere di vivere quell’attimo. Ho rinunciato per sempre a sentirmi uguale a prima. Da oltre vent’anni la mia vita è una carezza, un sorriso, un amico, la tv accesa, il racconto di un viaggio. Vivo tutto il male della morte nella perfetta coscienza della vita.
Sono condannata a essere immobile, ma il cervello funziona. Il mio ormai è un corpo in apnea. Un corpo senza il diritto di vivere, né di morire. Una testa pesante di pensieri terribili appoggiata su un manichino di plastica, di ghiaccio e di fuoco. Non ho peso. Ma nemmeno il senso del peso. Sono un astronauta che vaga nel cielo del dolore. Stringere una cosa qualunque tra le mani, sentire tra le dita il fruscio di un libro o la crudezza della seta, poggiare le piante dei piedi sul terreno nudo e sassoso. Camminare più che correre. Essere. Toccare e farsi toccare ancora. Nulla. Non posso più neppure ascoltare il mio cuore.
Almeno potesse entrarmi nella testa martellando le tempie per farmi sentire che sono viva a dispetto di tutto.Così mi resta solo il rumore del dolore. Vorrei chiudere gli occhi una notte e risvegliarmi col buio che ha cancellato tutto il passato. Invece ogni giorno la mia pena si sveglia. Rinasce. Ricomincia tradita dai sentimenti e dai ricordi. Sono paraplegica, una di quelle che nel destino hanno pescato una vita spezzata.
Ho imparato a non mollare ma questa sopravvivenza è un’impresa. E’ difficile rassegnarsi, passare di colpo dal movimento alla paralisi. Bisogna dominare la rabbia di non essere più come prima, non farsi travolgere dal peso dei ricordi. Accettare la fatica di una vita che impone regole diverse. Pensare che c’è ancora una finestra aperta sulla speranza. Con la speranza puoi dire: io vivrò.
Ho imparato a schivare il pensiero tremendo di lasciarmi andare, di vegetare nel niente. Mi sono allenata a non cedere, a coltivare la fiducia anche quando sembrava persa. Ho scelto di essere nel presente, immaginando un altro viaggio.
L’unica forza che muove il mio cervello e sembra trascinare il mio corpo immobile è quella della vita. Chi è malata come me, ce l’ha nascosta da qualche parte. Può trovarla subito oppure soffocarla, fingendo di non avvertirla. Si ammutolirà, schiaffeggerà se stessa fino a umiliarsi, ma se la nostra anima intravede anche solo uno spiraglio di luce, quella forza troverà la sua strada per esplodere. Voglio essere ancora protagonista della mia vita, scavalcare con la fantasia il muro di pietra del corpo paralizzato. Posso guardarmi dentro anche qui, con il cielo dipinto sul soffitto, e usare ogni forza per non far morire la speranza. Soffro per gli abbracci che non posso dare ma sento emozioni mai provato.
Per chi corre, parla, si muove, sfoglia le pagine di un libro, si stropiccia gli occhi è difficile capire questa immobilità cosciente. Anch’io comincio a non capirla più. Mi sento dimenticata. Ho paura del buio. Chiedo aiuto a Dio.
Vorrei impugnare la mia sofferenza e usarla per aiutare chi nel proprio destino ha incontrato la paralisi. Vorrei sentirmi utile a qualcosa. Far riflettere, svegliare qualche coscienza addormentata. Non ho più paura di vivere per quella che sono. Ho imparato a farlo. Governo le emozioni senza farmi travolgere. Se la disperazione prende il sopravvento, affondiamo. Reagire fa parte della vita. Si fa con una tempesta, con un imprevisto, per vincere la paura, per non restare in balia degli eventi. E’ quella parte che non si vuole arrendere.
I sogni nascono, qualcuno si realizza, e poi, inevitabilmente, sfioriscono, ma la capacità di sognare e di inventarsi sempre nuovi orizzonti, quella, non muore mai. Quando sogno mi faccio compagnia vivendo nel passato ed entrando nel futuro. I sogni non hanno barriere di tempo. I sogni sono liberi. Sono loro il mio riscatto. Sono loro l’unico luogo dove la mia immobilità vola via. Ci sono stati giorni di cupo silenzio, in cui tenevo ostinatamente gli occhi chiusi. Preferivo non vedere, non sapere. Consolarmi solo nel mio buio e nella mia tristezza.Non era la fuga da un presente immobile. Era il peso di una situazione difficile da governare, la responsabilità di mantenere in vita un corpo spezzato, il dolore di sentirsi inutile e ingombrante. A volte soffro in silenzio, cerco un posto dove nascondere la mia intimità.
“La sedia a rotelle è una dannazione…Riuscirò mai ad abituarmi all’idea di sostituire una parte o una facoltà del mio corpo con un pezzo di freddo metallo”? Potrò mai rassegnarmi a vivere come una “ diversa”? Ci sono giorni in cui il sole non arriva. Sento il gelo della paralisi accanirsi contro di me. Devo lottare con la testa, navigare nell’incubo con la forza della ragione. Debbo accettarmi. Anche immobile, la vita può continuare. Cerco la tenerezza con gli occhi. Voglio essere accarezzata così. Con un lampo di dolcezza.
A volte mi chiedo se ci sia ancora una finestra a cui affacciarsi. Mi aggrappo alle piccole cose. Nessuno sa capire veramente la felicità di un disabile. Siamo felici per un niente, anche solo un sorriso, o la telefonata di un amico. Mi piace avere un posto nel presente. Ho sempre guardato avanti. Non voglio perdere il legame con il mondo. Con l’ultimo brandello di forza ho raccolto una esistenza in frantumi. Con Dio non mi sono mai arrabbiata. L’ho pregato, implorato, invocato come un mago che può cambiarti il destino, ma solo per farmi coraggio. E’ bello attaccarsi a una idea di Dio, farsi trascinare da un soffio di spiritualità. E’ così che la nostra vita riesce a volare su un altro livello.
Non sento più il mio corpo come una vergogna, un ostacolo. Piuttosto come un filo, come un ponte per toccare gli altri. Sono in un letto, nel mio letto. Ma per la prima volta anche lui si è arreso ad ospitare immagini felici e piene di serenità. I ricordi non sono più dolori insopportabili. Anzi. Mentre una volta li fuggivo detestandoli, oggi mi accorgo che la mia mente li cerca nel passato prossimo e lontano sperando di portarne a galla i più belli.
Da una parte il ghiaccio del corpo, dall’altra la fantasia e l’immaginazione che sopravvivono. E’ come stare dentro due pezzi tagliati di te stessa. Forse la mia anima diventerà così forte da superare il corpo, da vincerlo e metterlo a tacere? Vorrei non aver paura del silenzio. O della vita, che è peggio. Frugo nei pensieri confusi della notte alla ricerca di un cammino, minato di parole e sguardi ed eventi, da percorrere non correndo ma passo dopo passo, come alzarsi da una sedia a rotelle e muovere con un piede l’aria intorno a sé!
Sono pronta a scoprire sul tappeto verde della mia esistenza il nuovo gioco che il destino mi ha imposto!
Dentro di me, superando momenti terribili e schivando la voglia di morire, è rifiorito il bisogno di vivere. E ti ritrovi così, donna a metà, la tua testa funziona, il tuo cuore palpita per ogni emozione, ma il tuo corpo è fermo. Sei dentro un corpo che non sente i tuoi desideri, tu non senti di avere mani e piedi e non puoi più fare tutto quello che potevi fare. E allora scatta il miracolo, giochi d’astuzia e provi a non ricadere nei soliti errori; ma non è facile. Non è facile dirsi “ però posso mangiare e sorridere”.
Non è facile quando sei viva dentro e morta fuori. Non è facile, ma per una forza sconosciuta e misteriosa provi a fare sì che lo diventi a poco a poco, provi a fregare il destino che ti ha tirato un brutto scherzo. Provi a vivere e continui a sperare. Una cosa è certa: nonostante le mie funzioni non siano più quelle di una volta, posso dire che sono ancora una donna!
Donna “ senza corpo”, prigioniera di un sogno cattivo. Ma se da un ritaglio di vita riuscirò a dare un segnale, una rinnovata voglia di sperare, la forza per vivere e non mollare, avrò assolto il mio impegno, e un altro momento di questa vita così travagliata e così punita si sarà compiuto.
Maria Teresa Montanaro, Canelli